Ciao buongiorno a tutte e tutti,
nell’ultima newsletter abbiamo parlato di come servano leader diversi per approcciarsi ad un contesto in continuo cambiamento.
In realtà, servono leader donne.
parlavo l’altra sera con una manager di una nota e grossa azienda (una di quelle che, al sentirle nominare, ti scappa un maleducato fischio, se lo sai fare, io no, mio figlio di 5 anni sì) che mi raccontava una cosa piuttosto orrida.
Più o meno avevano fatto capire che, in quanto manager, un’altra maternità sarebbe stata spiacevole per l’azienda.
Lei si chiedeva se, un giorno non lontano, avrebbe dovuto scegliere tra un altro figlio o il lavoro. E se lo chiedeva per una serie di motivi:
poche strutture e pochi posti negli asili
un po’ di bias (madre casalinga che si prende cura dei figli, e quindi lei si sentiva in difetto)
un po’ di pressione sociale ILLEGALE
difficoltà nel costruire una rete sociale artificiale al posto di quella tradizionale di famiglia.
Sui nidi, c’è poco da fare: la situazione è grottesca in tanti comuni italiani. Per il mio terzo figlio, terzo, figlio, terzo, siamo in lista di attesa su due asili su tre (si possono mettere 3 scelte). Nemmeno un terzo figlio entra dritto di filato. Ma niente frignonate, qui il punto è un altro.
Posto che le pressioni ILLEGALI sono all’ordine del giorno, posto che molti bias culturali sono difficili da sconfiggere, c’è pure molta difficoltà nel costruire una rete di baby sitter o tate adeguata ai propri figli. Delegare all’asilo sembra essere accettabile, la tata no, per una serie di motivi (difficoltà a fidarsi, difficoltà a scegliere, difficoltà a trovarle e a trovarle che rispettino tutti i parametri di genitori ANSIOSI (lo siamo, dobbiamo prenderne atto, sennò non ne usciamo).
Io ho una rete di baby sitter che manco le cellule dormienti di un noto gruppo terroristico (e costano più o meno come le fortune di chi li ha sovvenzionati), ma nemmeno questo è il punto. Il punto è dover scegliere. Non poter, ma dovere. Ed è una stortura che, da bravi capitalisti, abbiamo portato pure in Cina.
In Cina meno figli = più manager donne 🇨🇳
Xi Jinping, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, di recente ha pubblicato una raccolta di discorsi sul lavoro femminile e minorile. Di fatto la leadership cinese, almeno a parole, ha decisamente sterzato verso una maggiore integrazione e perfino una decisa presa di posizione in tema di diritti. Xi ha varato anche un vasto piano contro le molestie sul lavoro (una piaga non solo cinese), con una legislazione severa nei confronti dei molestatori, tra cui il licenziamento. Il contesto però è già cambiato (come sempre prima che i leader intervenissero): le donne cinesi si stanno iscrivendo in massa ad Università e Master, come riassume uno studio del Financial Times:
Il contesto cambia: nelle grandi città sempre più donne stanno abbandonando il mito della famiglia, e della cura dei figli (il focolare è uno dei tanti must della cultura cinese). In Cina ci si sposa meno, e in generale si hanno figli più tardi. Tutti dati che potremmo definire abbastanza in linea con l’Occidente. Cito:
"Siamo arrivati a un punto in cui le donne leader, sia al centro che ai vertici, stanno decollando", afferma Zhao Ying, co-fondatrice ed editrice di WhichMBA.net, una piattaforma di formazione manageriale con sede a Shanghai. "Ma la mancanza di reti di supporto in settori come l'assistenza all'infanzia ha costretto molte donne professioniste a ridurre, se non a rinunciare, le loro ambizioni di carriera".
Altro dato potente, che sembra quasi in contraddizione: si fanno meno figli, però chi li fa deve lasciare il lavoro, per privilegiare la carriera del marito. E questo ha prodotto un 2022 con un dato bassissimo di occupazione femminile, il più basso dell’ultimo decennio:
Asili nidi troppo costosi e con pochissimi fondi statali, difficoltà a sostituire la rete in famiglia, con una artificiale. Non parliamo di salario, cito:
Secondo Boss Zhipin, un portale di ricerca di lavoro online con sede a Pechino, il salario urbano medio per i lavoratori di sesso maschile tra il 2018 e il 2021 è stato di circa il 28% superiore a quello delle lavoratrici.
Anche qui, nulla di nuovo sotto al sole. In Cina se ne parla, negli Stati Uniti pure. Le due super potenze, pur in contesti e complessità totalmente diversi, sembrano condividere la stessa difficoltà nel supportare la parità di genere concretamente. Eppure un report di McKinsey un po’ datato parla chiaro: con le donne nei board, si guadagna di più. Non vi basta per farci un pensierino?
Donne = stonks
Donne= “Stonks”. Che, per chi non lo sapesse, è la distorsione satirica della parola inglese stocks, che vuol dire “azioni”. Il suo significato è il sinonimo di qualcosa che è andata bene oppure male a qualcuno o a qualcosa. “Stonks” è stato inventato nel 2017 nella pagina Facebook Special Meme Fresh. Un meme super famoso, che ben rappresenta la situazione delle aziende con donne nei board:
In effetti, secondo McKinsey, le aziende in ritardo in termini di diversità etnica e di genere avevano meno probabilità di raggiungere una redditività superiore alla media. I ricercatori della società di consulenza hanno scoperto che le aziende con dirigenti donne o di minoranze etcniche avevano il 33% in più di probabilità di ottenere profitti superiori alla media. Orrido consigliare di farlo per profitti maggiori, ma magari è un linguaggio un attimo più comprensibile ai più.
In America il tema diversità è sentito, ma i manager non fanno DAVVERO abbastanza per l’inclusione. Non vi sembra una cosa già sentita? Cito:
I dati compilati da HIP Investor Ratings mostrano che il 91% delle società S&P 500 ha definito una politica per promuovere la diversità e le pari opportunità, ma solo il 14% ha delineato una serie di traguardi e obiettivi sulla diversità per i manager. Questa disconnessione fa luce su un problema evidente che deve affrontare l’America aziendale: i dirigenti non stanno intraprendendo azioni sufficienti per guidare gli sforzi per l’inclusione.
Siamo al punto: non stiamo facendo abbastanza sforzi. Per le donne, per una REALE parità di genere sul posto di lavoro (nemmeno parlo delle minoranze, che proprio questo tema in Italia è del tutto fuori dai radar).
Anzi la dico bene: facciamo sforzi di facciata. Che è peggio, perché è demotivante, frustrante. Sembra di fare una passeggiata dentro Cinecittà, con i set dei film ancora in piedi, solo che al posto delle facciate degli edifici ci sono i diritti. Anche qui: si parte sempre dal singolo. Cominciamo ad evitare queste 30 discriminazioni:
Accento
Età
Capacità di attrazione
Corporatura
Classe
Colore
Stile comunicativo
Identità culturale
Restrizioni dietetiche
Formazione scolastica
Storico lavorativo
Etnia
Conformità di genere
Salute
Abilità intellettuale
Stato civile
Nazionalità
Occupazione
Posizione professionale
Stato parentale
Tratti della personalità
Abilità fisica
Preferenze politiche
Gravidanza
Razza
Religione
Posizione residenziale
Seniority
Orientamento sessuale
Stato di veterano dell’esercito o meno.
In soldoni però, ci si rende conto che questi sono pretesti. Il punto è sempre lo stesso: essere donna. Ed è un punto che per la maggior parte di noi uomini è distintivo, discriminatorio, follemente centrale nelle scelte lavorative, di carriera, di avanzamento, di salario.
Buona giornata, se riuscite con un attimo di percezione in più di questa situazione che è, come visto, mondiale, pur con complessità e diversità importanti. Ah, alla ragazza della nota azienda ho detto che deve cambiare azienda, subito, pieno di bile. Ma è stato un consiglio sbagliato: è l’azienda che deve cambiare, subito.
Per voi, cari abbonati, invece un po’ di articoli fighi:
il punto del nostro cervello dove nasce l’immaginazione
come convivere con l’ansia sul The Guardian
Cosa succede con gli uomini, sul New Yorker