Il perfezionismo è un rifugio da cui devi scappare 🚵🏻
Il titolo è un po' catchy, però in fondo non fa rima con alte performance sul lavoro
Buongiorno a tutte e tutti,
l’ultima volta abbiamo parlato delle idee 💡 travolgenti, oggi di perfezione.
il perfezionismo, in molti colloqui che ho svolto, viene inserito come pregio. Alcune persone, bonariamente, aggiungono, “oh, è anche un difetto”. Ma non sembrano pensarlo veramente. In fondo, essere ossessivamente precisi non può essere davvero un problema in ufficio, no?
Un lungo studio di Thomas Curran, professore assistente presso il dipartimento di scienze psicologiche e comportamentali della London School of Economics, ci racconta una realtà un po’ diversa.
Il primo punto, smontiamo subito questo falso mito: perfezionismo non è quasi mai uguale a standard elevati. O meglio, non sono due cose che giocano sullo stesso campo. Di solito, il perfezionista eleva gli standard, quello sì. Ma non lo fa per amore dell’output, del risultato. Non lo fa perché è appassionato, o perché vuole a tutti i costi che il lavoro svolto sia altamente creativo, o molto preciso. Il perfezionista unisce perlopiù insicurezza a manie di controllo. Diciamo che il perfezionista è un mago degli Excel. Non c’è nulla che dia l’illusione di controllo più intensa di un file Excel.
Altro punto: i perfezionisti spesso lo sono perché qualcun altro è stato perfezionista con loro. Cito:
Caso dopo caso, stavano osservando persone che si sentivano obbligate a essere perfette non solo per scimmiottare i propri standard impossibili – sebbene lo facessero in larga misura – ma anche per scimmiottare gli standard impossibili che sentivano imposti loro da altri, e che loro stessi hanno imposto a chi li circondava.
Non è l’unica forma di perfezionismo possibile (c’è anche quello auto-orientato). Ma spesso è frutto di un nostro ecosistema interiore non completo, o semplicemente infantile.
Il perfezionismo per me ha un paio di grossi problemi: manca di indulgenza, ed è una continua richiesta di rinforzi positivi. Sui rinforzi positivi. Io sono una persona che richiede spesso più o meno implicite conferme agli altri: mi soffermo molto spesso su questi miei atteggiamenti, ci penso molto, cerco trick per non ripeterle.
Quasi nessuna di queste cose riscontro in molti altri. Riformulo: sono in pochi a comportarsi così. Per analizzare il proprio comportamento ci vuole tempo, voglia, autostima, e capacità di leggere la propria storia e il proprio carattere e il proprio istinto e le proprie emozioni. Capirete da soli, che è una roba e un lusso di pochi.
Sull’indulgenza: è un cammino complesso quello di pensare di meritarsi di riceverla, e di auto-somministrarsela.
Si tratta della chiave di volta di quasi tutte le soft-skill, è la figlia putativa di un atteggiamento verso l’altro non sospettoso, infingardo o concorrenziale, ma fortemente empatico. Anche qui, difficile da trovare in giro.
Mediamente, le persone così non sanno dire di no, e hanno quindi un altro problema di gestione delle forze necessarie a sostenere il loro apparato relazionale. Ma questo è un altro discorso.
In generale, non sono uno di quelli che dice “abbracciate il fallimento”, come questo articolo del Time. Piuttosto, predicherei un atteggiamento pratico nei confronti dei fallimenti: vanno accettati, con un atteggiamento analitico, accettandone il portato emotivo. Il problema è che rifuggiamo spesso le cose che ci fanno male, o mettono in discussione il nostro sistema di certezze. In questo senso, predico un approccio pratico: fare cose, analizzare scenari, capire dove si sta andando, perché é capitato, accettare pure che certe cose capitano anche se un vero perché, che forse alcune cose non lo avranno mai un perché.
Scusate, ho visto il documentario su Beckham, passiamo oltre.
Questo vale anche per le dinamiche aziendali, per le grandi delusioni o i piccoli scogli, gli attriti, le idee rifiutate e quelle accolte male, o quelle che si spengono nelle nostre giornate. Le emozioni, dai primordi dell’uomo, ci dovrebbero spingere all’azione (così è abituato il nostro cervello) spesso immediata, e non all’immobilismo. Alcune, tipo i lutti, o i grandi dolori, hanno spinto il nostro cervello a spingerci dentro i nostri rifugi, per evitare predatori proprio nel momento della tragedia, o del dolore.
Ok, il perfezionismo come pulsione a standard elevati difficilmente raggiungibile è quel rifugio, per molti di noi. Alimenta il senso di incompletezza. Di fatto non ci fa uscire verso l’altro, perché non sarà mai come vogliamo noi. Cominciare a smettere di essere perfezionisti nocivi è un lungo percorso: come quasi tutto nella nostra cultura contemporanea, parte avvicinandosi ad altri esseri umani fuori dalle solite convenzioni.
Buona giornata e buon lavoro, in fuga dalla perfezione
Per voi che mi date fiducia, giusto una piccola rassegna stampa aggiuntiva sul tema.
Qui trovate l’intervento di Curran, il professore di cui sopra, ad un TedX. Prendetevi del tempo, ne vale la pena:
E qui un altro intervento con cui non sono del tutto d’accordo, ma che parla di come ricalibrarlo:
Tre articoli che ho letto:
le gabbie tecnologiche che abbiamo costruito andrebbero distrutte, l’articolo di slate.com
il nostro senso della catastrofe andrebbe ricalibrato pure, secondo lifehacker.com
Come liberarsi dal perfezionismo (questo è in 🇮🇹) su efficacemente.com, un ottimo sito di crescita personale, probabilmente il migliore in Italia.