Ciao a tutte e tutti e buon lunedì
questa è Coltura aziendale e io sono Luca Capriotti, appassionato di gaming, bambini, lavoro soprattutto se inventato da me e dinosauri.
La puntata di oggi la facciamo partire da questa lettera arrivata al New York Times. Forse è una mail, ma mi piace pensarla come lettera. Per leggerla ci vuole l’abbonamento, ma noi sbirceremo attraverso il mio.
La lettera è questa, ve la traduco pure:
Sono una giovane professoressa in un campo dominato dagli uomini, e guido un gruppo di laboratorio di studenti di laurea e di undergraduates (con un mix di genere approssimativamente 50-50). Di recente, una dei miei membri più giovani del laboratorio mi ha affrontato sul fatto che sente di non poter essere completamente se stessa sul lavoro, in parte perché non si sente a suo agio a piangere pubblicamente nel nostro spazio di laboratorio. Ha anche detto che pensa che dovremmo parlare dei nostri sentimenti e condividere di più sulle nostre vite personali. Credo che le persone dovrebbero essere in grado di portare la loro interezza in ufficio. Apprezzo molto anche il valore di avere una dinamica di gruppo di laboratorio positiva e sana. Tuttavia, i confini personali-professionali esistono per una ragione, e come una giovane donna, sono particolarmente attenta all'importanza di stabilire questi confini per me e per i miei studenti.
Sono anche frustrata perché dubito che questa studentessa avrebbe mai affrontato un professore maschio riguardo agli stessi problemi e sento che mi venga richiesto uno standard più alto perché sono una giovane donna (più relazionabile e accessibile). Come leader e mentore, come posso creare uno spazio in cui tutti i membri del laboratorio si sentano inclusi e valorizzati senza rendere a disagio coloro di noi che non vogliono condividere i loro sentimenti sul lavoro?
— Anonimo
Questo mi ha ricordato una delle sensazioni più ricorrenti che ho avuto nel passaggio dal gestire un processo a gestire un team. Ovvero: sono relazionabile, accessibile, orizzontale, è un bene? Mi rispondo di sì sempre. E poi: è giusto però mettere dei confini?
La risposta di Roxane Gay, scrittrice e docente, è molto interessante:
Navigare le differenze generazionali può essere difficile, lo stesso vale per essere tenuti a uno standard diverso o irragionevole. I cambiamenti nelle tendenze sul posto di lavoro ci dicono che molti della Generazione Z stanno cercando ambienti professionali che lasciano spazio a condividere i sentimenti e a essere completamente se stessi. Sospetto che la tua dipendente avrebbe affrontato un supervisore maschio con simili preoccupazioni, anche se il suo livello di comfort nel farlo potrebbe essere stato diverso.
Come te, credo in ambienti di lavoro sani in cui tutti possono essere completamente se stessi, anche se non posso dire che, la maggior parte del tempo, voglio sedermi a parlare dei miei sentimenti con i colleghi. Ho amici per quello, e la maggior parte dei miei amici non sono i miei colleghi. Puoi favorire un ambiente emotivamente aperto rendendo chiaro che il tuo laboratorio è un luogo di lavoro professionale.
Come leader, condividi con questo giovane membro del laboratorio ciò che lei ha bisogno di sapere sulle norme professionali. Il lavoro deve essere fatto e, idealmente, quel lavoro dovrebbe essere fatto in uno spazio in cui le persone si sentono al sicuro, viste e rispettate, pur essendo tenute a uno standard di eccellenza. I limiti sono importanti. Le cose possono andare terribilmente male quando le linee tra il professionale e il personale si offuscano. Oltre a utilizzare questo come momento di mentoring, potresti avere una conversazione interessante con la tua dipendente. Chiedile perché pensa che dovresti parlare dei tuoi sentimenti e condividere di più. Cosa spera di ottenere da tali scambi, e come fare ciò supporterebbe le sue responsabilità professionali? Non sono sicuro che tu possa o debba persino soddisfare tutte le sue aspettative, ma puoi colmare la distanza tra voi.
Confini e posti sicuri 😶🌫️
Mi sono segnato due cose di questa risposta: sul lavoro devono esserci dei confini. Non sulla risata, o sulle lacrime, non è del tutto necessario che siano sempre confini emozionali. Ma è importante che ci siano.
E l’ho già scritto qui: non è necessario essere amici sul lavoro. Non sviliamo l’amicizia: avere ottimi rapporti con i colleghi, fare iniziative di team building, sentirsi al sicuro è una cosa. L’amicizia intesa come profonda condivisione di ideali, situazioni, affetto, è un’altra roba. Forse a volte tendiamo a svilire le parole e i concetti che portano. L’amicizia è una roba seria, profonda. Le relazioni sul lavoro sane, belle, divertenti, non è detto che siano amicizie, anzi è piuttosto raro. Quando succede, è una roba bellissima. Se non succede, possiamo divertirci a lavorare insieme lo stesso.
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Lacrime giorno e notte 💧
Ora andiamo al cuore: piangere in ufficio è sano? Ok, è mostrare emozioni, e a volte è necessario. Va accolto, come tutte le emozioni gestendo un team può capitare di trovarsi di fronte situazioni di stress alto, periodi tosti, relazioni complicate. Lacrime di frustrazione, di tristezza, di rabbia.
Le lacrime legate alle emozioni sono una delle poche cose veramente umane. Uno studio scientifico segnala come le lacrime abbiano un “ruolo evolutivo cruciale come uno dei principali indicatori di disagio, che segnala un bisogno di aiuto e ha il potere di creare un legame tra le persone”.
Abbiamo un punto fermo: le lacrime sono un indicatore di disagio (da questa trattazione dunque leviamo le lacrime di gioia o di commozione, ma sospetto che non siano così comuni in ufficio), sono legate ad un bisogno (di aiuto) e hanno un potere: legano le persone tra loro. Per questo motivo, spesso i manager che le ritengono inadatte al contesto sono quelli che non vogliono sentirsi legati. Tipicamente, non vogliono empatizzare, umanizzare i colleghi. Insomma, persone fantastiche.
Come spiega qui:
Le ricerche suggeriscono che i bambini piangono per riprendersi da una sensazione di disagio emotivo o di sopraffazione e anche come segnale sociale per chiedere aiuto o fermare un comportamento aggressivo negli altri. Il pianto stimola il sistema nervoso parasimpatico (PN), importante per il recupero e il rilassamento, come una sorta di opposto alla risposta "combatti o fuggi". Possiamo tracciare una linea di demarcazione tra "un buon pianto" e le sensazioni di catarsi emotiva e di recupero. Le lacrime possono anche stimolare il rilascio di sostanze chimiche cerebrali come l'ossitocina e gli oppioidi endogeni. Le lacrime possono quindi aiutare a respingere il dolore di emozioni tristi o forti. Il pianto può essere un meccanismo di attaccamento, attraverso il quale ci leghiamo agli altri suscitando o mostrando empatia.
Un vecchio report pre-Covid segnala come il 45% dei lavoratori presi in esame ha pianto in ufficio. E il 74% dei CEO pensano che piangere in ufficio sia ok (chissà come mai, mi aspettavo questa regia concessione) e non impatta sulla carriera.
Siccome è un segnale di disagio, non posso proprio essere d’accordo con questo pezzo di Betterup che è quasi un endorsement al pianto. Sia chiaro: ok, aiuta a far recuperare presto dallo stress, ma insomma cavolo sarebbe meglio non raggiungere quel livello di stress. Meglio la parte in cui si parla di saper gestire le emozioni. Io per esempio credo che piangere a volte serve, ma che imparare a gestire le emozioni serve di più. Un ambiente sano di lavoro è tale perché NON fa piangere le persone. Ma se succede, per motivi terzi o simile, no problem, purché, come indicatore di emozioni, sia compreso, gestito, accolto ma anche contenuto, se serve visto il contesto.
Sarebbe importante capire perché si piange: non si riesce a gestire la situazione, la relazione, il confronto, la sfida, il contesto emozionale, la competizione?
Piangere è una risposta umana ed è dovuto a:
Frustrazione e stress
Confronto o conflitto
Pressione dovuta al sentirsi valutati o giudicati
Profonda passione e investimento
Burnout ed esaurimento
Ingiustizia
Il mio consiglio preferito è: trovare un attimo per ricomporsi, fosse anche con un bel sospiro, o un attimo di telecamera spenta. Se dall’altra parte c’è una persona comprensiva, darà tempo e modo (magari parlando di altro, o cambiando il registro, o rassicurando), di rimettere in ordine idee, pensieri, serenità.
Piangere non è mai un problema, la mancanza di gestione nelle emozioni potrebbe diventarlo.
Uno studio raccontato su LinkedIn spiega come le donne in genere piangano di più degli uomini (5 volte al mese le prime, poco più di 1 gli altri). Non è difficile capire il perché: la cultura machista di molti uffici, e di molti manager non autorizza le emozioni da femminucce. Lo scrivo, perché è una roba che ho sentito varie volte. Se non stigmatizziamo, facciamo sentire dei deficienti quali sono le persone che la pensano così, stiamo al loro gioco da machomen. Per inciso, non vi sto manco a dire tutti i benefici per la salute mentale di un bel pianto. Vi dirò però che i benefici mentali di mandare a quel paese un deficiente sono incredibili. Cito dall’ultimo articolo linkato:
La prossima volta che vi imbatterete in un collega o in un dipendente che piange sul posto di lavoro, ecco alcune cose concrete che potete fare per non farvi notare:
Non cercate di chiudere il discorso. Invece, ponete alla persona domande aperte, come ad esempio: "Cosa posso fare per sostenerti in questo momento?".
Accettare il proprio disagio. Piangere mette tutti a disagio: questo è uno dei tanti motivi per cui è così tabù piangere al lavoro. Si può essere tentati di far sparire il disagio, ma questo spesso non è utile e può far sentire la persona che piange giudicata.
Ricordate che la maggior parte delle emozioni sul lavoro deriva dalla frustrazione, non dalla tristezza. Questo può essere un aspetto importante a cui leader e manager devono prestare attenzione, soprattutto se la causa della frustrazione è qualcosa che può essere affrontato all'interno dell'azienda.
A volte un pianto momentaneo è proprio questo: un momento per riprendere il controllo delle proprie emozioni. Ma a seconda del contesto del pianto, il dipendente potrebbe aver bisogno di un ulteriore supporto emotivo. Se lo ritenete opportuno, potete suggerire al dipendente di partecipare a una giornata dedicata alla salute mentale o al benessere.
Il disagio di fronte al pianto altrui è una roba che mi ha sempre attaccato al cuore: l’ho provato varie volte, ma nel tempo ho imparato che non c’è niente di disagevole, e nulla per cui provare disagio. Il pianto esiste, va compreso, abbracciato, non necessariamente consolato (non siamo per forza amici, ricordate) ma comunque messo in un contesto, e accettato. Vignetta del New Yorker che mi ha fatto ridere, molto per me:
La cosa più difficile da gestire sul posto di lavoro non sono i task, sono le persone. E il pianto è una roba umana, e se si vuole essere buoni manager, le robe umane bisogna conoscerle, approfondirle, e se necessario entrarci dentro.
La vita è vita, e i confini necessari tra vita privata e professionali non devono ingannarci: in ufficio portiamo comunque tutto noi stessi, le nostre emozioni, i nostri gap emotivi e i nostri dolori, il nostro stress e le nostre frustrazioni. Il messaggio dall'alto deve essere che nessuno perderà credibilità o sarà considerato meno competente se piange. Ma che le emozioni vanno utilizzate e gestite, non subite: è importante ricordare che la regolazione delle emozioni è un comportamento chiave della leadership. In altre parole, è molto importante essere in grado di influenzare le emozioni che si provano, quando si provano e come si sperimentano e si esprimono.
La domanda che dovremmo farci tutti non è solo:
Sono a disagio in questo momento? E come posso gestire il mio disagio?
Ma anche
sono fonte di disagio? Come posso cambiare questo momento?
Articolo da leggere per forza a fumetti del giorno:
https://www.newyorker.com/humor/daily-shouts/how-to-cry
Vi lascio un altro po’ di consigli qui su Forbes, e vi auguro una bella giornata
p.s.
libro che sto consigliando a tutte e tutti, veramente una bombetta, and stop crying your heart now
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