La guerra, a portata di click, mentre lavoriamo. Non credo di svelare cose incredibili sulla vostra e la mia giornata (anche lavorativa), ma è indubbio che per molt* la guerra in Ucraina abbia una risonanza maggiore rispetto ai tanti teatri e conflitti in giro per il mondo.
Su LinkedIn e su Instagram, su Twitter (mi raccomando, occhio agli account che seguite, selezionate e se possibile sostenete informazione di qualità, che verifica le notizie con cura, possibilmente dal fronte - io ho la mia, se volete è questa), o sui siti dei maggiori quotidiani, nelle chiacchiere da bar e nelle chat, l’attenzione verso l’invasione (chiamiamola col nome giusto) russa in Ucraina è massima. E questo coinvolge ovviamente il mondo del lavoro, in tanti modi.
Ci sono aziende che hanno dipendenti da remoto (abbiamo parlato nell’ultima newsletter di come stanno cambiando le aziende) che lavorano da Kyiv o da San Pietroburgo, ci sono dimissioni improvvise per tornare a casa e avvicinarsi ai parenti in pericolo, o per andare al fronte (non so se ci rendiamo conto della scelta, e di quello che comporta). Succedono cose come questa, e LinkedIn ne è pieno:
Per inciso, pare che in questo caso l’unica cosa fattibile a livello legale sia l’aspettativa non retribuita, con sospensione anche dei contribuiti. Che delizia.
Questa guerra in qualche modo ha travolto in maniera impetuosa e diversa molte quotidianità, per molti motivi.
Ci sono di certo molti motivi validi che si influenzano a vicenda:
la vicinanza geografica e culturale della regione coinvolta
un’ampia copertura mediatica
la comunicazione che uno dei principali attori di questo immane disastro umanitario (Putin) ha scelto di mettere in campo, con tutto l’interesse a farne uno strumento di propaganda decisivo, interno ed esterno (lo dico perché quello della comunicazione è un mio tema, e non ho altro tipo di conoscenze geopolitiche).
In qualche modo, questo va detto, riconduciamo tutto a noi.
Da quando il conflitto è iniziato, tantissime persone hanno preso a refreshare le pagine web dei principali quotidiane, scrollando tra Insta e Twitter, insomma in qualche modo la giornata lavorativa è almeno accompagnata - se non proprio interrotta in molti momenti - dall’imminenza e l’urgenza dell’evento bellico.
Questa mappa un po’ confusionaria ma indicativa degli hashtag utilizzati in trend su Twitter ieri sera (domenica 27 febbraio ndr) dà una minima idea di quanto questa guerra sia al centro di molti discorsi e molte narrazioni:
Questa guerra apre tante dinamiche, scenari, domande. Ne parlavo l’altro giorno su Whatsapp con un mio carissimo amico, Alessandro L., che abbina esperienza clinica (è psicoterapeuta), intelligenza emotiva rara, e un livello eccezionale sul campo di calcetto.
Si tratta di una sua opinione del tutto personale, ma apre alcuni quesiti interessanti:
Nella vita quotidiana di molti di noi l’evento bellico in sé non ha un grande risvolto CONCRETO - per ora (mi riferisco ad eventuali conseguenze economiche e chissà che altro) - se non il refresh compulsivo, o in un caso più fortunato l’attivismo, l’atto concreto, la solidarietà, una manifestazione di 500.000 persone:
Sicuramente stimola ed evoca una serie di paure più profonde, quelle che Alessandro chiama dinamiche di angoscia. E se succedesse a noi? E se ci fossi io, lì, con quel bambino in braccio? E se ci fossimo noi là? E se in un futuro non troppo lontano ci trovassimo in una situazione simile?
In qualche modo attiva un allarme. E questo allarme ci fa percepire come del tutto inutile, fittizio, vano o comunque di scarsa importanza quello che stiamo facendo.
È una sensazione piuttosto comune, unita ad un certo senso di impotenza.
Questo tweet della psicoterapeuta e consulente di comunicazione Francesca Ungaro relativo alla pandemia è ancora drammaticamente attuale:
In questo momento gioca un ruolo fondamentale e doppio l’empatia.
Questa non è una newsletter di psicologia, quindi non diamo per scontato definizioni o altro, questa quella di empatia:
Qualche tempo fa, in un ciclo di conferenze sui social network, un ottimo psicoterapeuta che lavorava con me, Marco S., spiegava come l’empatia funzioni più o meno come un muscolo: la capacità di immedesimarsi e mettersi nei panni degli altri può finire del tutto nel dimenticatoio, può atrofizzarsi, spegnersi, esattamente come il nostro tono muscolare (o il mio bicipite, per dire).
Dicevo che questo termine ha una valenza doppia quando lavoriamo ma la nostra mente scappa su Internet o vola alla situazione che ci causa angoscia: punto per voi, l’empatia in questo caso è importante. Ma non è solo una sensibilità personale.
Si tratta di qualcosa di più, ed ha molto a che fare con il mondo del lavoro. E che con le competenze che serviranno sempre più.
Nell’ultima newsletter parlavamo dei remote-manager, ovvero i nuovi - o vecchi - manager, che si trovano ad affrontare scenari del tutto nuovi, e probabilmente dovranno e devono mettere in campo skill e abilità diverse, più profonde, o le stesse ma decisamente più raffinate per sopperire all’assenza fisica del dipendente, che si trova magari a chilometri di distanza.
Mi sembra abbastanza chiaro che l’empatia in questo preciso momento storico debba giocare un ruolo decisivo nella vita, anche aziendale. Attenzione: non sto parlando di un peloso pietismo, cioè di compatire senza fare nulla per aiutare, ma di ascolto attivo e capacità di immedesimazione.
Il manager in questo momento è chiamato a gestire un momento di vita forte - questo, e altri simili si intende, non pensiamo solo alla guerra, ma pure ai lutti, alle calamità naturali, alle situazioni durissime che molti e molte di noi hanno vissuto vivono nel personale e in qualche modo si sforzano di affrontare durante una giornata di lavoro: chi li ignora, o platealmente li stigmatizza (già, nel nome della performismo mascherato da professionalità si fa di tutto), potrebbe essere un dirigente performante, ma sarà un essere umano respingente.
E di questi tempi dilatati, tra distanze, relazioni e spazi del tutto da re-inventare, un manager respingente è un manager da evitare. Non essere quel tipo di manager, se puoi.
La componente umana avrà sempre più un peso e una specifica rilevanza all’interno delle gerarchie aziendali.
Mi sento di condividere molto di questo post di Tlon (cosa che non capita sempre):
Sono cose che le grandi aziende di consulenza ripetono come un mantra, che i coach e gli psicologi e gli head hunter ripetono all’infinito, ma poi bisogna pure metterle a terra.
Il manager non dovrebbe aver timore o ritrosia di esprimere preoccupazioni, opinioni, idee, condividere lo stato d'animo del team anche nei cosiddetti smart talks, le chiacchierate informali pre-call, pre-meeting, nei caffè virtuali e in quelli - spesso al limite dell’imbevibile - delle macchinette.
Se lo scenario di guerra è un tema in topic nelle facce e nelle conversazioni o in generale crediate che sia importante, ascoltarvi e parlarne è un ottimo modo per esorcizzare molte paure o molte discussioni.
Ha molto a che fare sul ruolo che un manager dovrebbe avere: di fatto diventerà sempre più un facilitatore di processi, perfino quelli verbali. Un’azienda in cui si parla poco è un’azienda che rischia di avere molto spesso le porte scorrevoli.
Prendo da questo interessante articolo, ma pure questo pezzo del New York Times merita eccome:
Revealing why verbalizing helps heal our emotional pain, neuroscience studies by Lieberman et. al. (2007) and Vago and Silbersweig (2012) have found that labeling our feelings reduces activation in the amygdala, our brain’s alarm system that triggers the fight-or-flight reaction.
Di certo un atteggiamento trasparente (mi verrebbe da dire accogliente) non risolverà conflitti bellici o problemi personali, ma è un supporto. Non peloso, non lontano, non indifferente approccio formale, ma un solido supporto che renderà più efficace (in molti sensi) e fruttuosa la relazione non solo umana - e ok - ma anche quella lavorativa e professionale.
Ok, in questa parte della newsletter volevo darvi qualche consiglio su come essere più produttivi, più concentrati, trick and tips per evitare di pensare continuamente a quello che sta succedendo, e alle possibili conseguenze.
Sarò anti-logico: per me a volte è necessario lasciarsi coinvolgere. Con voglia di informarsi, curiosità, vaglio delle fonti, studio, interessi molteplici non si costruisce solo un dipendente o un manager migliore, ma semplicemente un uomo sapiens migliore. Se ci fossimo sempre limitati alla routine, saremmo in competizione con i Bonobo e gli scimpanzé. Siamo andati oltre (anche se alcune cose mi fanno dubitare) anche per un atteggiamento sano verso qualcosa che è lontano, angoscioso perfino. La corretta gestione di questa angoscia, di questi flussi di informazioni può aiutarci in tanti modi.
Se la situazione invece vi sta intossicando - l'approccio tossico non è mai nello strumento o nell'atto o nell'emozione, ma in bel altro - forse sarebbe il momento di trovare un modo serio per alimentare la vostra capacità di concentrazione sul lavoro, su qualsiasi cosa che sappia depotenziare certi circuiti mentali e certe vocine interiori. Come dice un personaggio di Corrado Guzzanti, a volte la risposta è dentro di te, però è sbagliata.
Quindi un rapido toolbox per aumentare ed aiutare la concentrazione c'è lo lascio qui, non prima di aver condiviso con voi la migliore risposta sul tema sul noto forum Quora:
Mi incuriosisce questo metodo, di certo è interessante pensare di fermare la valanga di informazioni e pensieri che formuliamo fissando un orologio. Potrebbe funzionare.
In questo articolo invece un tema che potrebbe tornare utile: il “cognitive reframing”. Ne parleremo magari più avanti, ma riconoscere le proprie emozioni e sapere su cosa possiamo agire - e su cosa invece dobbiamo avere indulgenza presso noi stessi e renderci conto che non possiamo farci niente - è già un bel passo in avanti.
Mettere le cose nella giusta prospettiva - perfino la guerra - potrebbe essere un ottimo modo per ritrovare una routine lavorativa intensa e produttiva. In questo pezzo un po’ di trick per farlo, il mio preferito: 12. Be more creative on the side
L’overthinking - il ruminare eccessivamente certi pensieri negativi, e sul tema ucraino-russo potete trovarne quanti volete purtroppo - è legato strettamente alla depressione (parola di una psicoterapeuta di Yale, Susan Nolen-Hoeksema. Anche in questo caso, ci sono una serie di modi per evitare di restarci sotto.
Infine: per i manager non c’è solo la scelta binaria tra compassione e performance. Si tratta di un trappolone da cui bisogna scappare, o che bisogna eludere con dati, strumenti, idee ed empatia. Appunto.
Come sempre grazie, e buon inizio settimana