La lealtà aziendale non è più la stessa
E non si basa più sull'antica sicurezza psicologica di stabilità lavorativa.
Ciao,
buongiorno a tutte e tutti, mentre vi godete il vostro caffè di questo lunedì pre-1 maggio, parliamo di lealtà sul posto di lavoro.
Vi lascio subito la puntata del podcast, se vi piace sentirla prima della newsletter:
Partiamo subito forte con i dati tirati fuori da Indeed:
Secondo il Workforce Insights Report 2024 di Indeed, il 71% dei dipendenti afferma di essere attivamente alla ricerca o disposto a cambiare lavoro se si imbatte in una grande opportunità.
Indeed aggiunge una roba banale, ma mi sembra giusto metterla come base. Cosa comporta per un’azienda avere dipendenti leali?
Maggiore produttività. I dipendenti fedeli hanno maggiori probabilità di cercare il miglioramento e il successo sul posto di lavoro. Hanno anche un atteggiamento più positivo e un morale più alto, che può essere contagioso.
Migliore immagine aziendale. Le aziende possono trarre vantaggio da una migliore reputazione e attrarre nuovi talenti quando riescono a trattenere i dipendenti.
Costi inferiori. Naturalmente, un grande motivatore è il risultato finale. È costoso per le aziende assumere e formare nuovi dipendenti.
L’antico contratto psicologico che impediva al lavoratore di pensare con frequenza ad un licenziamento, vista la forte stabilità passata del posto di lavoro, si è sgretolato nell’ultimo decennio.
Sono un po’ fissato con le etimologie, forse perché nel senso delle parole che diciamo c’è molto di più, spesso, di quello che intendiamo.
Il termine "lealtà" deriva dal latino legalitas, che a sua volta proviene da legalis ("legale") e lex ("legge"). Questo termine indica una qualità morale che si manifesta nell'essere leale, sincero e franco.
Due studi dell'Università della California a Berkeley (citati da Focus, mica sorbole) hanno intervistato un certo numero di lavoratori dipendenrti su come avevano raggiunto gli obiettivi professionali e sugli atteggiamenti che avevano assunto, come la disponibilità nell'aiutare gli altri o al contrario i comportamenti prevaricatori, ascoltando anche l'opinione dei loro colleghi su come si ponevano sul luogo di lavoro. Così si è visto che le persone aggressive e manipolatrici non avevano raggiunto traguardi più ambiti rispetto a chi, invece, si era mosso con generosità, lealtà e gentilezza.
La lealtà è un motore di traguardi. Non la lealtà alla fazione, o a un capo. Ma la lealtà come principio di comportamento tra colleghi di fronte agli errori, con i superiori nel tributare agli altri il giusto merito, o nell’elevare le altrui qualità.
Per me, in soldoni, lealtà è lasciare un ambiente di lavoro più sano, virtuoso, forte e emotivamente solido di quando siamo entrati.
La lealtà è un atteggiamento di correttezza e dirittura morale, un attaccamento al dovere e rispetto della propria dignità. È interessante notare come su Wikipedia emerga come la lealtà implichi anche la coerenza tra il comportamento pratico di una persona e gli ideali a cui si attiene teoricamente.
La lealtà pratica – esempio stupido, non ricerco attivamente lavoro mandando il curriculum a 500 competitor al giorno – spesso fa rima con un sistema di valori.
Dicevo che l’esempio è stupido, perché legare la lealtà all’azienda è fin troppo vicino a quel concetto, molto inculcato, di azienda come famiglia. Due sfere totalmente diverse, un concetto paternalistico che fa rima con “vi offro il pranzo io che sono il capo”.
In un rapporto totalmente asimmetrico come quello che lega un lavoratore al proprio datore di lavoro, parlare di lealtà è strano. Cosa fa un lavoratore leale?
Un lavoratore leale fa il suo dovere, e lo fa con tutti i crismi, a “norma di legge”. Un lavoratore leale è responsabile, non sfrutta SEMPRE che ne so lo smart working per andare a fare una lunga spesa di 3 ore nel centro commerciale. Se proprio deve, una volta lo fa pure, magari avvisando.
Un lavoratore leale è franco verso la sua azienda, perfino trasparente, sia nell’individuarne i difetti sia nel diffonderne i pregi.
Un lavoratore leale è un ambassador di quello che gli sembra giusto, e non smonta tutto solo perché, che ne so, ritiene di essere stato trattato ingiustamente una volta.
Dice Mailchimp su Threads, che nel mio cuore ha già sostituito X:
Quindi, ricapitolo, 4 principi neurobiologici di base regolano il senso di lealtà:
la ricompensa, che alla fine ci agita tutti e tutte,
l’emozione, che ci spinge
la memoria, di quello che facciamo, subiamo, facciamo subire
l’interazione sociale
In realtà, secondo me si istilla realtà in due modi:
uno banale, con un atteggiamento attivamente leale
uno più complesso, incentivando i comportamenti leali, e disicentivando quelli sleali. In qualche modo, se ci pensate, è legato al principio della ricompensa.
La ricompensa è strettamente legata alla motivazione. Ed è connessa ad una parte specifica del cervello:
Se quello che vedete nel disegno vi sembra un ago, c’è un motivo legato ad esperimenti sui topi che a quest’ora del mattino vi celerò. La parte del cervello detta Nucleus Accumbens è fortemente ricettiva lato dopamina.
In particolare, la parte della motivazione è legata alla corteccia pre-frontale del nostro cervello, come spiegano in questa interessante lezione universitaria che vi sto gentilmente riassumendo. Cito:
Kent Berridge, ricercatore in neuroscienze affettive, ha scoperto che i gusti dolci (graditi) e amari (non graditi) producevano espressioni orofacciali distinte, e queste espressioni erano mostrate allo stesso modo da neonati umani, oranghi e ratti. Ciò dimostra che il piacere ha caratteristiche oggettive ed è essenzialmente lo stesso tra le varie specie animali.
Dunque si può insegnare la lealtà in tanti modi: gratificare con ricompense comportamenti leali e supportarli attivamente è un ottimo modo per far capire, anche consciamente, quale è la parte giusta della barricata secondo il proprio manager. Si può, in qualche modo, insegnare la lealtà procurando piacere di lavorare in un posto, piuttosto che un altro.
LA GEN Z E LA LEALTA’ A DUE CORRENTI
Ovviamente, la GEN Z ha qualcosa da ridire sul concetto di ricompensa tradizionalmente associato all’ambiente di lavoro.
Secondo uno studio Pwc, si tratta di una forza lavoro fortemente conscia di poter cambiare lavoro velocemente.
La metà degli intervistati Gen Z ha dichiarato di voler chiedere un aumento nei prossimi 12 mesi (rispetto al 42% complessivo), il 46% ha dichiarato di voler chiedere una promozione (rispetto al 35% complessivo) e il 35% ha dichiarato di voler cambiare datore di lavoro. (rispetto al 26%). Uno su tre.
La lealtà per la Gen Z non va solo imposta, va pure guadagnata in qualche modo.
Come si impatta su questi ggiovini?
Mostra di essere fortemente interessato alla loro crescita
Falli entrare in tutti i progetti legati ad AI o innovazione
Sii realistico e concreto sui loro obiettivi e su quello che vuole l’azienda da loro
Offri giuste ricompense, anche economiche. La competitività degli stipendi sta diventando sempre di più un fattore decisivo. Sembra strano, ma, complice la crescente trasparenza sulle RAL anche nelle offerte di lavoro, si richiede sempre più all’azienda attenzione scrupolosa nel proporre benefit e stipendi all’altezza. E senza vertenze sindacali, è il vero potere del dipendente oggi: mi offrono di più fuori, non siamo competitivi.
La retribuzione è cruciale per la lealtà, non giriamoci intorno.
Il Workforce Insights Report 2024 di cui vi parlavo prima ha evidenziato i principali motivatori nella ricerca di lavoro.
I lavoratori riferiscono di cambiare lavoro per assicurarsi una retribuzione più alta (58%). Ciò ha molto senso se si considerano i dati di ADP . Su base annua, gli incrementi salariali per chi resta al lavoro sono stati in media del 7,2%, mentre quelli che cambiano lavoro hanno quasi raddoppiato gli incrementi retributivi attestandosi al 14,3%. Inoltre, nonostante il 75% dei lavoratori riferisca una retribuzione pari o superiore ai livelli del settore, permangono alcune differenze significative. Il doppio delle donne (29%) rispetto agli uomini (14%) ha dichiarato di sentirsi sottopagate, rivelando che l’equità retributiva – o almeno la percezione di essa – ha ancora molta strada da fare. Lo dico per chi non se ne fosse accorto.
Voglio chiudere con il warning. Lealtà non significa tribalismo. Non bisognerebbe dare un peso eccessivo ai riti aziendali, alle fedeltà diplomatiche, alle tribù gerarchiche o ad una certa dirigenza clientelare. I tempi del patronus dell’antica Roma sono finiti: non avete bisogno della protezione di nessuno.
Per voi che siete arrivati o arrivate fino a qui, la seconda puntata del nostro podcast insieme: i due livelli di lealtà, ovviamente.
Volevo parlare di un’intervista del Financial Times, figa, ma invece ecco qui, mi sono lasciato prendere la mano. Qui l’episodio:
Buona giornata, se condividete soprattutto su LinkedIn mi aiutate a crescere
a presto
Per voi che mi date fiducia, la consueta rassegna in più:
alla fine, non c’è più tanto entusiasmo per le intelligenze artificiali, secondo il Post
i processi di fiducia del nostro cervello, in inglese
come insegnare bene al nostro cervello, senza che se ne dimentichi