Si dimettono davvero tutti come mosche?
Great Resignation, si stanno dimettendo come mosche, o nemmeno troppo?
Lo avrete sentito questo termine, avrete visto qualcuno o qualcuna, l’avete forse percepito nell’aria o nelle ossa: sta arrivando la Great Resignation? Cosa succede quando NON vi va più di lavorare, non avete motivazioni, cominciate a refreshare ossessivamente LinkedIn, Indeed, o qualsiasi altra diavoleria siate certi vi stia per consegnare una nuova vita?
Negli Stati Uniti la chiamano Great Resignation, un fenomeno di dimissioni di massa. Non si è ben capito se sia vera, immaginaria, congiunturale e dovuta alla pandemia, che avrebbe spinto la gioventù irresponsabile e un po' frikketona (dai, lo so che lo pensate se avete +50) a rimettere in ordine la scala di priorità.
Si comincia a parlare di “*colloquio per rimanere”, tipo in questo tweet se ne parla (a proposito, sabato 5 febbraio l’hashtag #greatresignation aveva 200 tweet da mostrare, non li inserisco tutti non vi preoccupate).
*Think about it as the reverse of the exit interview, in which the goal is to construct a post-mortem explanation of why someone left, and what you could have done to avoid it”.
Priorità: rimetterle in ordine potrebbe essere lodevole, ma sta accadendo? Ad oggi i numeri sono incerti nel mondo, e in America sono piuttosto discussi.
Qui per esempio si sottolinea come ci sia un aumento di dimissioni, ma non così ENORME come si strilla sui giornali o viene rigettato in giro dai siti, sitarelli, sitacci.
Jay L. Zagorsky insegna all'università di Boston e spiega con dovizia di particolari che è piuttosto complicato già avere dei dati storici accettabili, viste le mutevoli condizioni del contesto.
Il paragone YoY è altrettanto complicato, ma denota differenze notevoli a seconda dei settori: alcuni, come le accomodation (alberghi, ristoranti, bar e simili) hanno un wow segno +, fino al +6,9% in più. Qui un grafico che rubacchio, certo nelle larghe reti dei diritti di autore e nella clemenza di The Conversation (ti voglio bene dai, don't judge me)
I numeri in aumento ci sono, ma non sono così IMPRESSIONANTI ecco. Forse chiamarla Great Resignation fa fare più click, ma il nome in codice, molto più realistico, potrebbe essere: Resignation medio-piccola con qualche graffio e con vista cortiletto interno.
In realtà il vero succo della questione è: perché la gente ci clicca su questa roba? Perché vuole sentirsi dire che TUTTI stanno finalmente dando un calcione alle responsabilità e al proprio boss? In quale coltura aziendale stanno navigando paramecicamente?
Prima di pensare che lo fanno tutti e tutte ovunque, perché vuoi farlo o non vuoi farlo tu?
Piccola libreria della Great Resignation per saperne di più:
Qui una qualche spiegazione interessante sul tema, con i numeri un po’ buttati là (non sono così certi e definiti, diciamo): → https://www.linkiesta.it/2022/02/great-resignation-dimissioni/
Se proprio volete sapere di lavoro da uno che ne sa di lavoro, il Principe Harry si becca il mio terribile cinismo ma qualcosa di interessante sulla salute mentale lo dice eccome → https://www.fastcompany.com/90702784/prince-harry-says-quitting-can-be-good-for-your-mental-health
Qui c’è un Podcast in 🇬🇧 del The New Yorker, che è il mio giornale preferito di sempre per tutta una serie di motivi, tra cui i suoi podcast (anche qui numeri diversi come vedete, ma sul tema c’è grande dibattito che in Italia non percepiamo granché) → https://www.newyorker.com/podcast/politics-and-more/the-great-resignation-and-the-new-office-politics
In Italia ha senso di parlare di questo tipo di dimissioni?
Numeri non ne abbiamo, la generica necessità per chi fa impresa di attrarre giovani c’è sempre stata, anche se a tentoni, le lamentele degli imprenditori sui giovani scansafatiche pure, in genere beato chi se la può permettere, questa Dimissione volontaria Per Cercare Un Nuovo Sogno Lavorativo.
In genere le nostre medie dimissionarie sono più basse rispetto all'Europa (qui qualche dato), e ho l'impressione - anzi la certezza - che il peso della pandemia, a leggere i dati, lo hanno sopportato e lo stanno sopportando - mi viene da dire come spesso accade - soprattutto le donne.
Questa delle grandi dimissioni sembra una delle solite impataccate narrazioni nostrane: si prende una cosa americana, la si indora con qualche dato in giro, e la si ficca sui siti web, in attesa che un grande giornale finanziario di Milano commissioni uno studio ad hoc.
Significa che qui tutto ok? Non proprio. Sul tema vado in chiosa (ma ne riparleremo), il senso di burnout non si può quantificare in termini di mere dimissioni e numeretti. Specialmente in Italia, paese in cui le dimissioni a volte sono licenziamenti mascherati, accordi e altre amenità. È molto più pervasivo il fenomeno, ed individuarlo dentro l'azienda (o dentro se stessi, e non siamo un mero frutto neurochimico nemmeno su questo argomento) sarà sempre più un fattore sempre più decisivo.
E per individuarlo non bastano attori aziendali seri e competenti, ma serve pure chiedere, capire, intendersi, respirare le facce dei colleghi o le espressioni. È una cosa da rabdomante, da psicologo, da mago, come si fa a capire che un dipendente o un collega ha voglia di cambiare aria? Come impedirlo o PREVENIRLO? Ma di certo presuppone una coltura aziendale proficua e generosa, gentile, accogliente e capace di rinnovare il proprio fascino (anche qui male, ok).
Una quote di Harari acido ogni volta che cito la parola: neurochimico
Come si rinnova il fascino di un lavoro, magari da casa, oppure in ufficio, separati da vetri o a pranzo alla propria scrivania? Quale connessione esiste, se esiste, tra la voglia di dimissioni e lo smart working? Ne parliamo meglio in futuro, ma intanto le domande ve le lascio in prestito.
Per la mia esperienza, lavorare è quella cosa fatta per il 20% di passione, per il 10% di amore per qualcosa che si fa, per il 70% di rogne, task piuttosto noiosi o ripetitivi, stipendio e necessità e tutta una serie di cose non troppo cool.
Alzare le prime 2 percentuali e abbassare l’importanza della terza è spesso un lusso, anzi lo è nel 99% dei casi, tranne forse per il Principe Harry ma ok.
Nonostante sia un lusso, è forse l'unico lusso che andrebbe ricercato con costanza, non solo perché ne va del famoso e tanto citato work-life balance, ma in genere per quel vizio brutto che abbiamo di cercare o desiderare l'avvicinarsi all'idea di felicità. Un termine pesante, proprio nel senso di peso specifico, che ha un senso molto sottile nelle dinamiche lavorative. Disconoscerlo, esaltarlo
Ciao Ciao, al prossimo lunedì lavorativo❤️
RECAP VELOCE: La Great Resignation è una roba per chi se la può permettere, ma forse non è così Great. Il resto entrerà in un mondo del lavoro che cambia, o se è già entrato deve capire in fretta come sta cambiando. E cosa chiedere al proprio lavoro, e quale lusso pretendere.
Un Sinek per chiudere
Sono un grande appassionato di Simon Sinek, quindi a fine newsletter ve lo regalo volentieri ogni tanto. C’è pure sottotitolata direttamente alla fonte originale TED
Visto che è lunedì, e tra non molto sarete pieni di coltura aziendale, un buon modo per farvela prendere a bene:
https://www.instagram.com/reel/CZjrSZLLoZt/?utm_medium=copy_link
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