N. 3 - 21-02-2022
Non credo di dover spiegare cosa sia Age of Empires, uno dei giochi di strategia più longevi e famosi e giocati di sempre.
Appartiene ad un mondo che non esiste più: quello delle lan casalinghe, dei forum, dei trucchetti per progredire più velocemente. Non c’era Discord, non c’era Zoom, non esisteva lo smart working e nemmeno il Covid, a dire il vero. Qui sotto il mondo di prima (per chi se lo ricorda, quella scimmia è buggata)
Detto ciò, in questo gioco la storia veniva vista come estremamente lineare, un continuo passaggio di progresso in progresso, di era in era. L’evoluzione della storia è spesso molto meno lineare, e molto meno orientata ad un progresso sfrenato. Detto ciò, se fossimo in Age of Empires questa sarebbe l’era del Remote Working. O lo sta diventando. O dovrebbe diventarlo.
Non mi metto a fare distinzioni tra lavoro agile, smart working, etc. Voglio semplificare: per questa newsletter, lavoro ibrido vuol dire lavorare un po’ da casa un po’ in ufficio. Full remote working per questa newsletter vuol dire rimanere sempre a casa - o dove volete voi, per favore senza quelle foto stucchevoli da imprenditori pronti per quella nota rivista dei 100 startupper più startupposi del mondo con il cocktail in mano. 😩
Per lo smart working, cioè disegnare in maniera del tutto diversa la giornata lavorativa, i task, le idee, il proprio tempo e spazio, ci sarà tempo in altre newsletter successive. Partiamo dal lavoro da remoto, che è sicuramente la cosa più vicina a voi in questo momento, anche se la chiamano smart working 😌
Ora che ci siamo chiariti e abbiamo fatto arrabbiare qualche purista del linguaggio, partiamo a ragionare un attimo. Le forme lavorative hanno pro e contro. Pro per le aziende, pro per i dipendenti, e contro per le due categorie. Non riguardano ovviamente solo le aziende e i loro dipendenti, ma le loro intere bolle sociali, dalle famiglie ai bar ai quartieri, gli uffici, i tool, tutto. Oltre che riguardare la vita personale.
L’assunzione obbligatoria, frettolosa, emergenziale di un modello lavorativo full remote a causa della pandemia ha cambiato tutto. Non si può tornare indietro, anche se troverete sempre i cantori del Si stava meglio prima, o quelli che faranno finta di stare ancora nei ruggenti anni ‘80 con i capelli tipo Flashdance (o meglio, vorrebbero, ora lottano e lottiamo con le calvizie, una vera disdetta l’invecchiamento senza adattarsi).
In questo preciso momento storico - chi più tardi, chi prima, chi ancora ci ragiona e chi forse non ci ragionerà mai - in moltissime aziende (financo nella Pubblica amministrazione, pensate un po’) si ragiona e si sta ragionando sul modello lavorativo.
Ripensare, riprogettare tutti i modelli lavorativi è un lavoraccio, ma è necessario. Prendo da questo articolo molto interessante per la testimonianza e gli spunti una serie di cose su cui sicuramente bisognerà mettere mano, se non lo si è fatto:
come evolvere il modello di business,
come comunicare efficacemente con tutti,
come prendere decisioni condivise,
come allinearsi su obiettivi e una cultura comuni,
come delegare sempre di più le persone a decidere autonomamente
Partiamo da chi il lavoro non ce l’ha, lo sta cercando, sta pensando di cambiare azienda, o si sta affacciando sul mondo del lavoro ora. Si tratta un po’ di un Big Bang, tutto sta ripartendo in maniera velocissima. Questo discorso esclude chi ha sempre avuto un modello iper-flessibile, chi ha sempre lavorato con tantissimi liberi professionisti (tralascio chi pensa che i liberi professionisti siano suoi dipendenti mascherati, perché è una roba illegale che non avete mai visto, giusto?).
Le altre aziende in questo momento sono di fronte ad una sfida: vogliono davvero applicare una cultura full-remote con TUTTI i suoi pro e contro?
Se preferiscono un approccio ibrido, sanno a cosa vanno incontro? Nell’articolo che vi ho linkato prima c’è uno dei problemi meno considerati: il disallineamento. Chi è in ufficio sa le cose prima. Chi è a casa non vive appieno tensioni, scazzi, gioie improvvise, mail vincenti che strappano gridolini di esultanza.
Qui, in questo articolo dell’Harvard Business Review, si parla di 3 tensioni diverse che un manager dovrà essere in grado di fronteggiare:
First, the tension between allowing employees to work when they want and expecting them to be available all the time;
Second, the tension between employees feeling isolated when not working from an office and feeling invaded by communication technologies;
Finally, the tension between what practices are possible in a hybrid workplace and what is preferred and rewarded.
Nella prima in molti si sono già imbattuti, abbiamo parlato in passato (cioè una settimana fa, un’infinità di tempo) di burnout, e c’è un legame tra questo cambiamento di mentalità necessario, il NON compierlo, e il resto.
La seconda, il disallineamento di cui sopra. Il rischio di creare dipendenti di Serie A e dipendenti di Serie B esiste eccome.
Di fatto vive mediato dallo schermo, che culturalmente è un processo sociale che parte da lontano - forse dalle care vecchie tv - ma che esteso in toto all’intera popolazione lavorativa di un’azienda per l’azienda stessa ha i suoi contro.
In futuro parleremo di benefits, di uffici, di tool. Ma oggi vorrei che ci concentrassimo su una cosa che una volta ci ha detto un imprenditore geniale (per chi vuole intendere il nome inizia per M, il cognome inizia per M): il vero fulcro delle resistenze alle modalità ibride e ancor più full è un problema culturale.
Non solo inteso come ignoranza o arretratezza o naturale resistenza ai cambiamenti di un management che è in un’età fisica e mentale per cui i cambiamenti sono visti con ostilità (ciao papà, non ce l’ho con te), ma anche per una mera questione di potere attrattivo, infine di potere.
Le strutture flessibili, casalinghe, per quanto ordinate e aziendalizzate, aprono uno scenario oscuro per le aziende stesse. Di fatto, stanno entrando a Mordor e non sanno bene come finirà, anzi molti pensano che finirà male. E lo dicono pubblicamente, con qualcuno che non la prende benissimo qua e là:
Nei fatti, i lavoratori possono scorrazzare in verdi praterie di auto-governo, capacità di regolarsi, darsi i tempi e i ritmi. Ok, in molti casi il full remote è diventato ossessivo compulsivo, con messaggi e chiamate a tutte le ore del giorno e della notte.
In Italia, dove il lavoro è percepito come un privilegio che un regnante benevolo elargisce con un sorriso di commiserazione, questo stalking manageriale è ovviamente molto diffuso.
Nello stesso tempo, l’azienda di Parma o di Tallinn o di Auckland che avrebbe avuto qualche difficoltà a trovarti un affitto vicino alla sede visto che sei di Roma, ora ti può assumere senza problemi - in certi contesti, ovvio, non fatemi dire cose ovvie dai.
Il manager che cerca una competenza molto specializzata - che sarà sempre di più la competenza che farà lavorare, per inciso - potrà farlo su una piattaforma praticamente sterminata. Potenzialmente in tutto il 🌏 .
La perdita della cultura dell’ufficio porta però anche dei contro per le aziende: lavorare per A sarà molto simile a lavorare per B.
Questo è il VERO piatto forte per l’azienda, dove dovrebbe concentrare TUTTO il suo sforzo e i suoi apparati e le sue menti geniali.
Non potrai più offrire il biliardino, la sede figa, il bar rinomato sotto l’ufficio o i ticket-restaurant in una zona IN. Non potrai più vantare la maxi sala riunioni, o portare i pasticcini per addolcire una giornata dura.
Questo è un punto focale: il legame con il manager, con le strutture, con le gerarchie, diventa per forza più liquido.
E do per scontato che per qualcuno questo sia una minaccia, per qualcun altro una sfida, per altri una meravigliosa opportunità di scardinare vecchie concezioni per entrare in una nuova era.
In cui si capiscono i confini, per esempio.
Cambia tutto, e una forte cultura aziendale dovrà sapersi trasformare. Dovrà bucare lo schermo e farsi percepire nelle case. Anche per chi fa lavoro ibrido: non è la stessa cosa, la quotidianità di un’azienda non può essere ricostruita allo stesso modo. E se l’homo Sapiens ha saputo scalare la catena alimentare e cambiare il suo status nel mondo animale, l’imprenditore che non si adatta rischia di finire parecchio in basso nella competizione lavorativa. Come far percepire il management? Come trovare una nuova empatia, una nuova capacità di relazione?
Quanto dovranno essere amplificate e forti le soft skill dei team leader per oltrepassare la disarmante neutralità della telecamera spenta nel meeting su Teams?
La cultura del task e dei tool probabilmente è il presente, ma la capacità di bussare nella vita di chi lavora da casa e farsi riconoscere, apprezzare, alimentando lealtà e condivisione, sarà l’unica strada percorribile per non farsi scippare i migliori talenti.
Zalando, nota app di shopping e abbigliamento, manda un kit che i nuovi e le nuove dipendenti mostrano con orgoglio su LinkedIn e suoi social (incoraggiati a farlo, ovviamente).
Un kit completo: dal pc, al cellulare, ai consigli per fare attività fisica in casa, fino ad arrivare agli snacks e ai gadget aziendali. E devo dire che fa prendere un sacco di reazioni su LinkedIn eh:
Niente di nuovo, ma amplificato dalla vita casalinga. Arriva un pacco gente, cosa c’è di più bello al mondo?
Bussano alla tua porta con un pacco che rappresenta qualcosa della loro cultura aziendale, che marca la differenza con le altre aziende che ti fanno andare in ufficio a prendere il pc con su scritto il nome di un altro - magari il vecchio possessore - e la password che non è la tua.
In Google - non sono uno di quelli che mitizza i colossi Tech, figuratevi anzi vi consiglio un paio di libri se volete, tipo questo di Rampini (no, non prendo commissioni su Amazon) - ovviamente stanno direttamente abbattendo la cultura dei task.
Il manager, che viene vagliato attraverso una review spietata dai suoi stessi dipendenti (succede anche in Italia, in aziende innovative o con modello US) e deve trovare il modo di renderti geniale ed esaltare il tuo indubbio (e ci mancherebbe, con le selezioni che fanno) talento.
Qui un piccolo esempio, prendetevi 5 minutini che ne vale la pena, non sia mai che mi sottraggo all’esaltazione della Silicon Valley o della verde Irlanda googliana.
La cosa da chiedersi sempre, prima di ripensare le strutture, gli uffici, chiedere di mutare i microfoni su Teams o di radunare le truppe in sede alla prima schiarita Covid, è: i miei manager, i miei team leader, i miei capi, insomma la mia struttura aziendale è in grado di vivere con umanità avanzata un contesto del tutto nuovo?
Io come mi relaziono con loro? Come mi sto adattando, sto dando ancora il massimo, ho bisogno di tornare in ufficio? Se sì, perché? Se no, come faccio a sentirmi 100% ingaggiata e leale?
Ha la sensibilità, la capacità, il talento e la qualità, ma in special modo l’empatia per reggere l’impatto di una nuova era? Cosa gli serve? Riprendo da Hubspot:
Il remote working, la flessibilità, tutto il contesto sono false flag, casus belli mediatici, non falsi problemi, di certo questioni rilevanti e davvero decisive e ne parleremo, ma sono posteriori alla vera domanda: siamo pronti davvero? Stai formando i tuoi manager, o i tuoi manager si stanno formando per questo scenario?
Sono pronti o stanno improvvisando, a seconda delle loro specifiche qualità umane?
Se non lo siamo, pronti ed umani, cosa abbiamo sbagliato e come possiamo porvi rimedio? Sei ancora in grado di auto-regolarti, affezionarti, empatizzare, vivere le dinamiche aziendali ed amare il tuo lavoro e la tua azienda perfino, se lavori a distanza?
Con queste domande esistenziali mi sembra giusto lasciarvi al vostro lunedì,
a presto e grazie davvero del vostro tempo